Antonio Martino per L’Opinione, 1° maggio 2012 Il 16 marzo 1876 Marco Minghetti annunziò trionfante il raggiungimento dell’obiettivo perseguito con tenacia per anni: il pareggio del bilancio pubblico. Gli uomini della Destra Storica consideravano quell’obiettivo condizione ineliminabile di correttezza nella gestione della cosa pubblica: come le famiglie e le imprese, anche lo Stato non doveva fare il passo più lungo della gamba, spendere soldi che non aveva, indebitandosi. Erano perfettamente consapevoli del fatto che tale politica era contraria al loro interesse di parte (la “tassa sul macinato” era molto impopolare) ma ciononostante la proseguirono perché credevano che realizzasse l’interesse nazionale. Il 18 marzo la “rivoluzione parlamentare” fece cadere il governo e, dalle successive elezioni, la Destra Storica scomparve. E’ stata la classe politica di gran lunga migliore che l’Italia unita abbia avuto e il suo suicidio politico a occhi aperti lo conferma. Il 24 ottobre 1946, alle ore 17, si riunì la Sottocommissione all’Assemblea Costituente. La riunione fu molto breve il che può essere spiegato in un solo modo: erano tutti d’accordo sul significato di quello che stavano facendo, specie per l’ultimo comma dell’articolo 81 che, come voi sapete, recita “Ogni altra legge che imponga nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte”. A quella riunione partecipavano due personaggi fra loro molto diversi, uno piemontese e l’altro lombardo, uno liberale e l’altro democristiano, uno liberista e l’altro fautore della programmazione, ma che avevano in comune la stessa tradizione culturale incorporata negli studi italiani di scienza delle finanze e che concordavano assolutamente su questo punto. I due personaggi si chiamavano Luigi Einaudi ed Ezio Vanoni. Luigi Einaudi in quella riunione disse che l’ultimo comma dell’articolo 81 costituisce “il baluardo rigoroso ed efficace voluto dal legislatore allo scopo d’impedire che si facciano nuove o maggiori spese alla leggera senza avere prima provveduto alle relative entrate”. Questa tesi fu appoggiata dall’onorevole Ezio Vanoni, il quale precisò che “la norma è una garanzia della tendenza al pareggio del bilancio e che è opportuno che, anche dal punto di vista giuridico, il principio sia presente sempre alla mente di coloro che propongono spese nuove. Il governo deve avere la preoccupazione che il bilancio sia in pareggio e la stessa esigenza non può essere trascurata da una qualsiasi forza che si agiti nel paese e che avanzi proposte che comportino maggiori oneri finanziari. “ Come noto, a partire dai primi anni Sessanta quella regola venne abbandonata: il Governatore della Banca d’Italia la definì (1963) “principio arcaico”, un famigerato giurista di sinistra ha costruito la sua formidabile carriera sostenendo in un ponderoso volume che l’articolo 81 non poteva imporre il pareggio del bilancio … perché ciò sarebbe stato contrario alla teoria keynesiana! Il risultato fu che quella regola fu ignorata finché non è stata riscoperta per “salvare” l’Europa (sic). In realtà il principio del pareggio è regola sacrosanta quando le pubbliche spese non superano il 10% del reddito nazionale (come al tempo di Minghetti) o si aggirano sul 30% (come all’epoca di Einaudi e Vanoni) ma, quando il rapporto della spesa pubblica sul reddito nazionale supera il 52% come adesso, il perseguimento del pareggio realizzato tentando di fare aumentare le entrate è semplicemente demenziale e ha conseguenze potenzialmente disastrose. A questi livelli di spesa la forma di finanziamento – imposte o indebitamento – è del tutto irrilevante: si tratta di un livello insostenibile e incompatibile con lo sviluppo e l’occupazione. Pareggiare il bilancio significa pretendere di prelevare con i tributi il 52% del reddito al contribuente medio; quanto dovrebbero sborsare coloro che hanno redditi superiori alla media, il 60 o 70 per cento, e le imprese il 90 o più percento? Solo un folle può credere che la crescita sia possibile in queste condizioni. L’Italia non era a rischio di default: è il paese più solido della zona dell’euro; il governo “tecnico” non l’ha salvata da un bel niente, non ha “messo in sicurezza i conti”, né tanto meno creato le condizioni della crescita. Si è limitato a piegarsi supinamente di fronte all’idiotismo del diktat tedesco sintetizzato nello sciagurato fiscal compact, impegnando di pareggiare il bilancio entro il 2013 (ora slittato al 2014), dimostrando che l’economia non è pane per i denti di tecnici arroganti e ignoranti. Come avrebbe detto il maestro di Milton Friedman (Frank Knight): “Il guaio non è che sanno così poco di economia, il vero guaio è che sanno tante cose sbagliate”!
14 Maggio 2012
A Antonio Martino
Caro Professore,
per cercare di esporle il mio pensiero ho diviso il mio intervento in due messaggi
Col primo esprimo la mia analisi chiedendo un suo commento e le chiedo una spiegazione del suo pensiero .
Con il secondo le esprimero’ una mia domanda sulla situazione delle economie occidentali in generale e di quella italiana in particolare . Sapendola e stimandola quale profondo docente di Economia nonche’ politico ed ex- ministro sono estremamente interessato ai suoi commenti
PRIMO MESSAGGIO
ANALISI : la crisi che tutto il mondo occidentale ( in testa l’Europa) sta’ attraversando e’ – a mio parere –è dovuta all’eccessivo costo a cui è pervenuto lo “Stato Sociale” . Il carico fiscale a carico dei cittadini e’ diventato insostenibile soprattutto quando la produzione di beni e servizi si sta’ contraendo senza che si contragga con la stessa rapidita’ la spesa pubblica.
Il cittadino occidentale oggi ha un aspettativa di vita molto superiore a quella di 50 anni fa’ : quindi pensioni piu’ lunghe , spese mediche piu’ prolungate e costose . Il tutto ( soprattutto in Italia) a carico della collettivita’ dei contribuenti . A cio’ aggiungiamo una rarefazione delle nascite per cui i giovani dimnuiscono e il carico della previdenza pubblica ( ma cio’ vale anche per i premi di quella privata ) aumenta sulle spalle di un numero sempre piu’ ridotto di giovani. E ringraziamo che in Italia il flusso degli immigrati ufficiali permetta un maggior equilibrio delle contribuzioni previdenziali.!
Quindi piu’ tasse senza che vi sia una diminuzione sostanziale della spesa pubblica (soprattutto, ma non solo, in Italia). Il tutto in presenza –causa la crisi -di una diminuzione di produzione di beni e servizi e quindi del gettito fiscale derivato dall’economia produttiva.
A cio’ aggiunga il legittimo desiderio di tranquillita’ economica che porta ogni cittadino italiano a ricercare il fatidico “posto ” sicuro . Spinta che finora era rivolta soprattutto verso la Pubblica Amministrazione dove gli stipendi erano si’ piu’ bassi ma il licenziamento era escluso e il tempo libero tanto ( per esercitare un lavoro “nero” nelle ore libere!!) . Ma cio’ vale anche in tutti i 26 paesi dell’U.E. dove la media dei dipendenti pubblici/ abitanti e’ circa 7% ( in Italia solo il 5,7%!!??) . Di fronte a questo dato mi chiedo se la riduzione dei dipendenti delle P.A. (e il risparmio relativo sul debito)sia veramente possibile in Italia.
Il ricorso al deficit pubblico come base del moltiplicatore economico di Keynesiana memoria , e’ oggi impossibile e irrealistico ma troppi politici e pensatori di sinstra continuano a predicarlo come unica uscita dalla crisi odierna .
Ma lei, se ho ben capito il suo pensiero, sostiene che :
il principio del pareggio è regola sacrosanta quando le pubbliche spese non superano il 10% del reddito nazionale (come al tempo di Minghetti) o si aggirano sul 30% (come all’epoca di Einaudi e Vanoni) ma, quando il rapporto della spesa pubblica sul reddito nazionale supera il 52% come adesso, il perseguimento del pareggio realizzato tentando di fare aumentare le entrate è semplicemente demenziale e ha conseguenze potenzialmente disastrose………
Pareggiare il bilancio significa pretendere di prelevare con i tributi il 52% del reddito al contribuente medio; quanto dovrebbero sborsare coloro che hanno redditi superiori alla media, il 60 o 70 per cento, e le imprese il 90 o più percento? Solo un folle può credere che la crescita sia possibile in queste condizioni.
ALLORA , SE L’HO BEN CAPITA LA SUA ANALISI PREVEDE 3 PUNTI:,
1. NIENTE AUMENTO DEL CARICO FISCALE,
2.POSSIBILE AUMENTO DEL RAPPORTO DEBITO/PIL .
3. POTENZIALE RIDUZIONE DELLE SPESE PUBBLICHE IMPRODUTTIVE.
Mi faccia sapere se l’ho ben capita poi con altro mio messaggio le faro’ la mia domanda
Grazie anticipate
Suo
Giuseppe Gloria
Per la stima e fiducia che nutro da almeno dieci anni in Lei, onorevole Martino, mi piacerebbe sapere perché Berlusconi (che ho sempre votato) non Le ha mai conferito responsabilità in campo economico. La nobile storia di Suo padre di certo non costituisce una risposta seria. Quella di Berlusconi è stata una scelta chiara, mi pare. Perché secondo Lei?
Grazie e congratulazioni!
Caro Michele Invernizzi,
perché non volli fare il ministro del Tesoro (oltre che delle Finanze e del Bilancio, come mi chiedeva Fini) nel 1994, l’ho spiegato nella raccolta di scritti “Liberalismo quotidiano”. Perché non ho voluto prendere il posto di Tremonti (come voleva Berlusconi) ha la stessa motivazione. Ho mandato un articolo a Il Tempo che forse uscirà domani. Appena pubblicato, lo metterò sul blog.
Cordialmente,
am
Gentile Professore
Vorrei inviarle una mia analisi ed una mia domanda a lei che superano di poco gli oltre 4.000 caratteri previsti da questo Blog.Non volendo tagliare il mio messaggio ed essendo molto interessato al suo commento le chiedo se mi puo’ dare un altro indirizzo mail a cui inviare il messaggio.
Inoltre aspetto con ansia di leggere il suo articolo sul Tempo di cui ho sentito molto parlare nella trasmissione di “prima pagina” su RAI 3
Suo
Giuseppe Gloria
Caro prof. Martino, lei sa per caso quanti analfabeti o ignoranti sono arrivati in Parlamento e al governo in questi 65 anni? Sicuramente un numero ridicolo in confronto ai milioni di diplomati e laureati che si sono mangiati l’Italia da politici incapaci.
E pure si continua a ritenere autorevole e salvifica la funzione dei professori prestati alla politica; più di quanto non lo siano i politici che fanno il percorso inverso ritornano ad insegnare. In realtà è sempre il singolo individuo a fare la differenza, con o senza istruzione.
Quindi la vera questione è se l’istruzione accresce il numero di soggetti che sono intelligenti anche da analfabeti; perchè se il rapporto numerico fra intelligenti e stupidi rimane inalterato dall’analfabetismo alla laurea, e per trovarne due di Antonio Martino devi buttare il sangue, allora i titoli di studio sono una truffa, la prima grande truffa da cui scaturisce quella culturale, giuridica, economica e sociale, posto che la democrazia non riesce a funzionare con quattro prof. Martino e quattro milioni di cretini, ma esattamente al contrario.
Frank Knight ha ragione da vendere: “Il guaio non è che sanno così poco di economia, il vero guaio è che sanno tante cose sbagliate”! Parole sante caro prof. Martino. In Italia c’è carestia di prof. con gli attributi fuori e dentro lo Stato. Saluti fl
Caro Franco Luceri,
grazie. Ciò che manca in politica non né l’onestà né la competenza, manca il coraggio. Il Parlamento è pieno anche di disonesti e incapaci ma non sono loro il guaio. Il vero dramma è che sono tutti (o quasi) dei codardi. Non vedo né Truman, né Reagan, né Thatcher, solo un branco di pecoroni.
Temo sia il prezzo che paghiamo per essere nati nel più formidabile paese nella storia dell’umanità.
Cordialmente,
am
Gerione, tiranno di Siracusa, quando introduceva un nuovo balzello mandava i suoi sgherri a vedere le reazioni della gente. Quando gli riferivano che erano tutti disperati, diceva: bene! Una volta gli dissero che tutti ridevano. Rispose: il balzello è inutile, non hanno più nulla da perdere, possiamo abolirlo!
Se il principio del pareggio si accompagna a un tetto alla spesa (come previsto nel mio programma di FI nel 1994) o al prelievo, è sacrosanto. Altrimenti è inutile e controproducente.
Cordialmente,
am
La ringrazio per la cortesissima risposta. E’ evidente che, se devo mettermi a nuotare per rimanere a galla, io cerchi di evitare di farlo con le mani legate…….
Approfitto della Sua cortesia per un’altra domanda. Da Ingegnere ho avuto a che fare nella mia vita con molti numeri, diversi naturalmente da quelli dell’Economia, di cui non so niente, ma mi sembra strano che nessuno abbia mai citato un numero, 90, che nella smorfia napoletana guarda caso rappresenta la paura, numero riferito alla famosa”quota”…..
Che cosa è l’euro per l’Italia se non una nuova “quota 90″ ovvero una punizione che si è autoinflitta, ovvero è la storia, che come Marx diceva si ripete sempre, la seconda come farsa?
O sono io a confondere?
Con cordialità e con i migliori auguri di buon lavoro ( e Dio sa quanto bisogno abbia l’Italia di un buon lavoro dei suoi parlamentari oggi….)
ar
Egregio Prof. Martino
dopo averle detto che da anni seguo sempre con vivissimo interesse i suoi interventi, condividendoli in toto, vengo a farle una domanda: e se pareggio di bilancio non fosse altro che l’unica maniera per diminuire la spesa pubblica improduttiva ( i viaggi di onorevoli grandi e piccoli, le consulenze fasulle etc……)?
Mi spiego. Perseguendo il pareggio di bilancio con una tassazione di (ben) oltre il 50% del reddito, si produce, come lei ben giustamente afferma, solo recessione e conseguente disoccupazione.
Ma a questo punto il malcontento sociale diventreebbe così forte da minacciare l’ordine costituito ( vedi il caso del lepenismo in Francia e del grillismo in Italia) per cui i governanti, non potendo ulteriormente innalzare la tassazione, si vedrebbero costretti a tagliare, e rapidamente, la spesa pubblica improduttiva.
L’imperatore Tiberio, che no era certo un tenero, a un suo consigliere che gli suggeriva di aumentare le tasse, rispose che compito di un buon pastore era quello di tosare le pecore, ma senza scorticarle…..
Distinti saluti
Antonello Ruscazio
Cagliari
Al tempo di Minghetti vigeva il gold standard: la moneta era (almeno in teoria) convertibile in oro. Convertibilità della moneta e ferrea fede nell’importanza del pareggio del bilancio scongiuravano politiche inflazionistiche (monetizzazione del debito). Come se non bastasse, la spesa pubblica assorbiva complessivamente meno del 10% del pil.
Bei tempi!
am
Egr. Martino,
se non mi sbaglio, dal 1866 fu imposto il corso forzoso (cioè la non convertibilità), almeno fino al 1883.
E le banche che potevano emettere moneta erano quasi tutti gli istituti operanti nei vecchi Stati.
Non potrebbe l’europa seguire almeno per un breve tempo l’esempio dell’unificazione italiana? Ammetto che quelli erano bei tempi, ma . . . (mah?)
ma oggi sono troppo brutti
(almeno per chi fa parte dell’economia reale e produttiva).
Eccezionale, come al solito.
Difetta solo di proposte.
Non si potrebbe almeno tentare di fermare l’emorragia della spesa per interessi (che in questo momento è superiore al deficit)?
Ad esempio: non si potrebbero scambiare regole ferree sul bilancio da inserirsi nei sistemi giuridici nazionali (cioè con risponsabilizzazione individuale dei premier e di chi per loro) con un ritorno almeno temporaneo alle sovranità locale sulle proprie banche di emissione nazionale?
In effetti, anche ai tempi di Minghetti le banche emissorie erano o pubbliche o sotto il controllo pubblico.
Mi sembra ormai dimostrato che gli alti interessi non servono a diminuire la spesa pubblica, ma ne diventano solo una voce importante.
E non è, quindi, che gli interessi impediscano l’inflazione. Al contrario, la aumentano per effetto dell’aumento della spesa pubblica.